Come nasce una faggeta,la storia di un patriarca
Con il lavoro di documentazione del progetto multimediale “ForestBeat” e attraverso le storie raccolte nelle pagine di questo sito noi abbiamo voluto presentare al pubblico le straordinarie faggete vetuste del PNALM, non solo introducendone alcuni degli abitanti più carismatici, ma anche celebrando il fascino dei loro spettacolari alberi: giganteschi faggi plurisecolari, dai tronchi enormi e rugosi e dai rami lunghi e contorti, ricoperti di muschi e licheni, le cui chiome possono raggiungere addirittura alcune decine di metri d’altezza. Patriarchi silenziosi, che da tempo immemore vivono su queste montagne e dall’alto delle loro roccaforti di calcare sembrano assistere indifferenti ai drammi e agli eventi della nostra breve storia di esseri umani.
Patriarchi silenziosi, che da tempo immemore vivono su queste montagne e dall’alto delle loro roccaforti di calcare sembrano assistere indifferenti ai drammi e agli eventi della nostra breve storia di esseri umani.
Come già sappiamo, nelle nostre faggete sono stati individuati alberi di quasi seicento anni di età. Alberi nati addirittura ben prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo nelle Americhe! Proviamo solamente a immaginare quante cose possono aver “visto” e vissuto questi faggi durante la loro lunghissima esistenza. Molto probabilmente sarebbe impossibile riuscire a ricostruire tutte le fasi della loro vita, eppure giocando un poco (ma nemmeno troppo!) con l’immaginazione e basandosi soprattutto su quanto noto di questa specie vegetale, forse si potrebbe almeno narrare più o meno verosimilmente la storia di uno di questi patriarchi. Storia, che ovviamente deve essere raccontata dal principio, dalla nascita dell’albero.
Viene quasi difficile crederlo, date le dimensioni davvero eccezionali che essi raggiungono, ma come tutte le piante anche questi giganti ultracentenari ovviamente hanno avuto origine da un piccolo seme. Il frutto del faggio viene chiamato “faggiola” ed è costituito da una cupola coriacea e ricoperta di morbide spine che racchiude al suo interno due acheni, due semi triangolari e legnosi che, come delle piccole castagne, proteggono a loro volta l’embrione della pianta, zuccheri e una grande quantità di olii. Il notevole contenuto calorico rende le faggiole molto appetite dalla fauna delle foreste e, quando esse si trovano ancora attaccate ai rami della pianta, vengono già prese di mira da uccelli, come cince e fringuelli, e roditori, tra cui ghiri e scoiattoli, che in un anno di “pasciona” (ovvero di fruttificazione del faggio, che avviene ciclicamente e di solito ogni 4-5 anni) ne fanno davvero incetta.
Il frutto del faggio viene chiamato “faggiola” ed è costituito da una cupola coriacea e ricoperta di morbide spine che racchiude al suo interno ‘due semi triangolari e legnosi che, come delle piccole castagne, proteggono a loro volta l’embrione della pianta, zuccheri e una grande quantità di olii. Il notevole contenuto calorico rende le faggiole molto appetite dalla fauna delle foreste
Proviamo ad andare indietro nel tempo, a entrare in una delle faggete dei Monti Marsicani alla fine del Medioevo e a immaginare una faggiola “fortunata”, che, rispetto alle decine di migliaia di altri frutti prodotti da una pianta nello stesso periodo (in media circa 30.000 faggiole vengono prodotte da un singolo faggio alla volta), non solo sia riuscita a arrivare a maturazione senza essere stata beccata o rosicchiata, ma che anche atterrata anche in un punto favorevole del terreno. Vincitrice di un’improbabile lotteria, la faggiola è caduta infatti poco lontano dalla pianta madre, dove il suolo è fertile e profondo, ben drenato e dove la luce del sole riesce comunque a filtrare un minimo tra le chiome degli alberi più grandi. Qui, seminascosta tra le foglie morte della lettiera, prima, e coperta dalla neve invernale poi, la faggiola ha atteso la primavera. Il frutto fortunato è sopravvissuto per mesi a muffe e insetti parassiti, sfuggendo alla vista acuta di una ghiandaia e alla fame di una piccola arvicola. Con l’arrivo dei primi tepori primaverili, la faggiola si è aperta e da essa è uscita una radichetta. Ciononostante, ci sono volute ancora molte settimane prima che si iniziasse a intravedere una timida piantina sollevarsi dai cotiledoni e diversi anni prima di vedere un sottile alberello. Recenti studi ci raccontano che, a causa dell’effetto “ombrello” causato dalla folta chioma degli alberi “madre”, gli alberelli ancora a pochi centimetri dal terreno vengono raggiunti da pochissima luce solare e quindi hanno un accrescimento molto, molto lento. Nelle foreste non gestite, piantine insignificanti, di qualche decina di centimetri d’altezza, possono avere infatti già una venerabile età di oltre 50-60 anni! Questa crescita lenta d’altro canto consentirebbe a questi alberelli di sviluppare maggiori difese contro funghi e altri parassiti e un fusto che, a lungo termine, si rivela più resistente alle sollecitazioni meccaniche.
Con l’arrivo dei primi tepori primaverili, la faggiola si è aperta e da essa è uscita una radichetta. Ciononostante, ci sono volute ancora molte settimane prima che si iniziasse a intravedere una timida piantina sollevarsi dai cotiledoni e diversi anni prima di vedere un sottile alberello
Torniamo però al nostro piccolo faggio “fortunato”. Altri decenni sono trascorsi dalla sua nascita, cervi e caprioli gli sono passati accanto senza brucarlo, la neve profonda lo ha protetto dalle gelate invernali e l’alberello si è fatto sempre più robusto. Tuttavia, un’estate molto calda e siccitosa ha visto dei piccoli coleotteri attaccare a decine il faggio e mangiarne tutte le sue foglie, mentre durante una tempesta autunnale che ha seguito si sono spezzati irrimediabilmente alcuni dei suoi rami più robusti. Ma, per fortuna, l’alberello era sostenuto dalla pianta madre e dai suoi “vicini” di bosco, che erano in contatto con lui attraverso le radici o, più precisamente, attraverso le micorrize, le strutture simbiotiche tra funghi e piante sviluppate attorno all’apparato radicale di queste ultime, e che così potevano “assisterlo” passandogli zuccheri e altre sostanze nutritive per tenerlo in vita. Questo ha permesso al faggio di superare ancora un altro inverno, nonostante la difficoltà di non poter accumulare carboidrati con la fotosintesi, e di continuare ciononostante (ma sempre molto lentamente) a crescere. La faggeta, infatti, è da considerarsi un vero e proprio “mega-organismo”, costituito da diversi individui di piante appartenenti alla stessa specie e in comunicazione costante gli uni con gli altri attraverso i loro sistemi radicali.
La faggeta, infatti, è da considerarsi un vero e proprio “mega-organismo”, costituito da diversi individui di piante appartenenti alla stessa specie e in comunicazione costante gli uni con gli altri attraverso i loro sistemi radicali
Sono passati ancora diversi anni e il nostro alberello è rimasto sempre lì, nello stesso angolo di faggeta, in lenta crescita all’ombra dei giganti. Poi, alla fine di un inverno particolarmente duro, una delle piante madri sopra di lui, vecchia di alcuni secoli e dal fusto ormai cariato da funghi e invertebrati parassiti, non ce l’ha fatta più. Essa non ha resistito al carico della neve sui suoi rami e si è spezzata, crollando con gran fragore al suolo e lasciando un grande vuoto nella canopia al di sopra del nostro faggio e di altre piante giovani. Questa è stata l’occasione che tutti loro aspettavano. Grazie alla luce che raggiunge il protagonista della nostra storia, l’alberello ha potuto finalmente uscire dalla sua “adolescenza” e crescere vigorosamente e senza restrizioni. Ma questa grande opportunità forse non si sarebbe verificata una seconda volta per la nostra pianta. A quel punto, infatti, era importante crescere ben dritti e senza indugio: venire superati in altezza da un altro albero avrebbe significato il trovarsi nuovamente all’ombra per un lunghissimo tempo.
Alla fine di un inverno particolarmente duro, una delle piante madri non ce l’ha fatta più. Essa non ha resistito al carico della neve sui suoi rami e si è spezzata, crollando con gran fragore al suolo e lasciando un grande vuoto nella canopia.
Il faggio ha raggiunto due secoli di età e oramai è un albero imponente, dalla folta chioma. La scure del tagliaboschi lo ha risparmiato, colpendo invece alcuni suoi “cugini” lontani poche decine di metri, e ora una famiglia di lupi riposa tranquilla tra le sue radici. L’albero ha vinto anche contro la statistica e il destino, i quali prevedono che a germinare, crescere e divenire un vecchio albero sia un solo seme, dei quasi due milioni che in media un faggio vetusto è in grado di produrre in tutta la sua esistenza. Dopo altri due secoli il faggio è ancora lì. Una coppia di tordele rumorose ha costruito il nido tra i suoi rami, mentre un grosso orso lo ha scelto come grattatoio e regolarmente strofina la schiena sulla sua corteccia rugosa. Lungo il suo tronco è evidente la ferita inferta da un fulmine, mentre alcuni funghi a mensola del genere Fomes hanno iniziato ad apparire dove la corteccia ha ceduto il passo agli agenti esterni. Lì piccoli fori denunciano anche la presenza di larve dei coleotteri xilofagi, che l’estate precedente sono emerse dal legno in forma adulta.
Lungo il suo tronco è evidente la ferita inferta da un fulmine, mentre alcuni funghi a mensola del genere Fomes hanno iniziato ad apparire dove la corteccia ha ceduto il passo agli agenti esterni
Sono passati in tutto cinquecento anni, siamo arrivati ai giorni nostri e in un pomeriggio d’inizio autunno un’escursionista accaldato si riposa all’ombra di questo albero maestoso, notando un picchio dalmatino che tambureggia su un ramo morto della pianta molto più in alto di loro. L’escursionista è seduto con la schiena contro la base impressionante del grande faggio. Gode a lungo della frescura e della pace che regna in quell’angolo di foresta. Riesce a percepire di essere in un luogo dall’atmosfera particolare, ma non sa di trovarsi in realtà al cospetto di un vero miracolo…
Sono passati in tutto cinquecento anni, siamo arrivati ai giorni nostri e in un pomeriggio di tarda estate un’escursionista accaldato si riposa all’ombra di questo albero maestoso
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