Le faggete vetuste del Parco Nazionale d'Abruzzo Lazio e Molise
Un vanto abruzzese dal valore universale
Nel 2003, un team di studiosi facenti capo all’Università della Tuscia di Viterbo, in collaborazione con il Servizio Scientifico del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALM), ha esposto in un articolo scientifico i risultati di una lunga ricerca effettuata in una faggeta del Parco Nazionale. In questa pubblicazione venivano descritte per la prima volta la struttura, le dinamiche e l’ecologia di una faggeta vetusta sorprendentemente rimasta “dimenticata” nel cuore del nostro Paese. Grazie alla sua inaccessibilità, infatti, parte della foresta della Val Cervara, situata sulle pendici settentrionali del Monte Schienacavallo nel Comune di Villavallelonga (AQ), sembrava non aver subito alcuno sfruttamento intensivo da parte dell’uomo né ingenti manomissioni, per lo meno a partire dal Secondo Dopoguerra. Si tratta di una faggeta di alta montagna, situata tra i 1600 e i 1850 metri di quota, dove gli alberi crescono lentamente e contorti, quasi in condizioni limite per la specie. Ciò la rendeva probabilmente troppo scomoda o poco remunerativa per il lavoro dei taglialegna e forse è stata risparmiata, in passato, anche per il suo ruolo nel mantenimento delle fonti d’acqua della valle e nella prevenzione di valanghe e slavine. Fortunatamente, con l’istituzione del PNALM, il suo inserimento all’interno del territorio protetto ne garantisce oggi il regime di tutela integrale. Queste sono state le condizioni invero fortunate che hanno permesso la sopravvivenza di questa foresta così particolare.
La faggeta vetusta di Coppo del Principe ripresa dall’alto
L’esame dendrocronologico degli alberi della faggeta della Val Cervara condotto dagli scienziati della Tuscia ha permesso inoltre di determinarne l’età, per alcuni esemplari eccezionali stimata di oltre 560 anni. Questi alberi, nati prima della fine del Medioevo e dell’arrivo sul Continente Americano da parte di Cristoforo Colombo, sono risultati essere quindi, non solo i faggi più vecchi d’Europa, ma anche le caducifoglie più longeve dell’intero Emisfero settentrionale! Una “scoperta” sensazionale che giustamente ha fatto il giro del Mondo e che ha portato all’attenzione dell’ambiente scientifico internazionale le stupende faggete dell’Appennino, innescando inoltre il processo di candidatura delle stesse a “Patrimonio mondiale dell’Umanità UNESCO”. Questo importante riconoscimento, di cui si attende il conferimento nel 2017, conferma il valore universale di questo vanto tutto abruzzese, ma richiede anche notevole documentazione, studio e pianificazione.
Licheni del genere Usnea, noti come “barba di vecchio”, adornano i rami dei grandi faggi nelle foreste vetuste
Innanzitutto sono stati individuati quattro ulteriori siti di faggete vetuste all’interno del PNALM, che vanno a costituire le componenti del “cluster” presentato dall’Area protetta all’UNESCO. Si tratta di quattro aree di foresta molto interessanti ed importanti. Oltre alla suddetta Val Cervara, nello stesso sistema montuoso, anche se nel Comune di Lecce nei Marsi, troviamo la vasta e selvaggia “Selva Moricento”: praticamente 190 ettari di wilderness dove la faggeta si sviluppa tra crinali montuosi e doline carsiche, nascondendo grotte e splendide radure, territorio di lupi e orsi.
Un orso bruno marsicano viene ripreso da una videotrappola in una piccola radura nel cuore della faggeta vetusta di Coppo del Principe
Nei Comuni di Pescasseroli e Scanno, invece, è situata la foresta del “Coppo del Morto”, un altro tratto di faggeta dove gli alberi superano i cinquecento anni di età, essendo scampati per lungo tempo alla scure dell’uomo soprattutto poiché si trattava di una “terra di nessuno”, cioè una zona contesa tra due Comuni. Più a sud, c’è la bellissima faggeta del “Coppo del Principe” e aree limitrofe, nella “Difesa” di Pescasseroli, dove i piccoli tratti di foresta vetusta, sopravvissuti su balze e rupi, si sono ormai fusi con la rinnovazione e le riserve dei tagli effettuati nell’area agli inizi del secolo scorso.
Due specie particolarmente legate alla presenza di alberi morti. A sinistra, il raro coleottero Rosalia alpina, dalla splendida colorazione blu elettrico. A destra, un maschio di picchio dalmatino con una larva di coleottero xilofago nel becco.
Questa è una delle zone più selvagge e suggestive del Parco, importantissima, oltre che per l’orso bruno marsicano, anche per alcune specie forestali assai rare e preziose, quali il picchio dalmatino (Dendrocopos leucotos lilfordi), il barbastello (Barbastellus barbastella) e il coleottero Rosalia alpina. Il nome di questa zona è stato dato in onore della frequentazione di queste montagne da parte dei nobili di casa Savoia risalente agli inizi del Novecento, quando questi parteciparono a celebri battute di caccia all’orso, organizzate dai nobili locali.
Il torrente della Valle Jancino che attraversa l’omonima foresta nel cuore della Riserva Integrale della Val Fondillo
Il quinto sito, che è anche il più vasto di tutti, ricade invece nell’area di riserva integrale della Val Fondillo nelle zone di Cacciagrande e Valle Jancino tra i paesini di Opi e Civitella Alfedena. È un luogo incantato e l’unica foresta vetusta del PNALM con presenza di acqua, in quanto attraversata da diversi ruscelli dalla portata costante. Alberi di dimensioni imponenti sovrastano valli incassate, piene di rocce ed anfratti. In queste faggete così umide si trovano specie altrove rare, come la salamandra pezzata appenninica (Salamandra s. gigliolii). Quest’area tra l’altro coincide con il nucleo storico di nascita dell’Area protetta stessa, nel lontano 1922, da cui poi il territorio del Parco si è esteso sino alla superficie attuale. Qui il mondo della faggeta viene a contatto con quello rupestre della Camosciara, e orsi, picchi e funghi incontrano genziane, camosci e aquile reali.
La salamandra pezzata appenninica nel suo ambiente lungo un ruscello nelle faggete della Val Fondillo
Queste faggete, oltre a concorrere per diventare patrimonio dell’Umanità, rimangono comunque degli importantissimi laboratori a cielo aperto per la ricerca e la gestione degli ecosistemi forestali. Questi alberi possono raccontarci infatti le vicissitudini del clima e della storia umana degli ultimi secoli; illustrare le complesse dinamiche ecologiche in atto tra le specie che vi vivono, e offrire strumenti preziosi e modelli per fare previsioni e scegliere linee di gestione future. È nostra responsabilità proteggerne, oggi l’integrità e garantire la permanenza dei processi evolutivi che le caratterizzano, così come è stato fatto da chi ci ha preceduto. Seppure ci sia voluto un team di studiosi per individuare le aree da includere nel cluster “faggete vetuste del PNALM”, è ovvio infatti che la conoscenza di queste antiche foreste fosse ben diffusa tra gli abitanti di queste montagne. La colorita toponomastica e la familiarità che spesso nutrono i locali per queste foreste testimoniano l’antico rapporto tra uomo e alberi in questa parte dell’Appennino.
A sinistra, lo zoologo Danilo Russo dell’Università degli Studi di Napoli Federico II esamina in controluce l’ala di un chirottero forestale per determinarne il sesso. A destra, un ricercatore dell’Università della Tuscia misura con un calibro il diametro di un faggio.
Sinora abbiamo parlato di faggete vetuste, ma cosa si intende esattamente con questo aggettivo? In una foresta vetusta si rinvengono tipicamente alberi di diverse generazioni e fasi di sviluppo, che riescono quindi a compiere tutto il loro ciclo vitale. Ci sono alberi che possono raggiungere l’età massima possibile per la specie e talvolta anche dimensioni notevoli, alberi morti in piedi e in terra, ma anche coorti di piante giovani che crescono negli spazi lasciati dai vecchi alberi caduti e legno morto in decomposizione. Queste foreste sono dei sistemi dinamici e complessi in cui le piante crescono, si riproducono, competono tra loro e muoiono naturalmente. È un ecosistema al massimo grado di naturalità, vicino per struttura e processi alle foreste primigenie e dove l’impatto umano (in particolare taglio e prelievo degli alberi), se mai c’è stato, è stato assente almeno per alcune decine di anni (a volte secoli) e dove il legno morto non viene rimosso.
Le faggete vetuste sono caratterizzate dalla presenza di alberi di età e stadi di sviluppo diversi e, soprattutto, dalla presenza di piante morte e necromassa
Rispetto alle foreste gestite o coltivate, dove la semplificazione strutturale e l’omogeneità degli alberi determinano anche una drastica diminuzione della vita animale e vegetale, nelle faggete vetuste la biodiversità è elevatissima. In particolare è proprio l’abbondanza di necromassa (legno morto), che favorisce diversi processi ecologici in grado di favorire l’insediamento e la vita di una notevole quantità di specie. Innanzitutto, la presenza di tronchi e legno morto previene l’erosione del suolo e favorisce l’accumulo di lettiera e un suo aumento di fertilità. Gli alberi morti in piedi e i tronchi caduti al terreno e i ceppi, poi, forniscono cibo e rifugio a molte specie diverse. C’è chi nidifica nelle cavità e chi si nutre della materia legnosa; chi vive dei parassiti del legno e chi costruisce la propria tana tra le radici di un tronco marcescente. Anche i resti di alberi a terra diventano un habitat importante per muschi, licheni, invertebrati e microrganismi che concorrono alla decomposizione del legno e all’arricchimento dell’humus. È proprio il caso di dire che, dopo la morte, questi alberi vivano una seconda (e piuttosto movimentata!) vita.
L’orchidea Cephalantera rubra cresciuta nel sottobosco di una faggeta vetusta.
© Bruno D’Amicis / Umberto Esposito 2013-2016 – www.silva.pictures
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