Forestbeat | La corteccia del faggio
Nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise sono state localizzate le faggete più antiche d’Europa, candidate a diventare Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Noi vogliamo raccontarvi la storia di questo ecosistema così complesso e ricco di vita.
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La corteccia è l’interfaccia di un albero con il mondo che lo circonda. Come una pelle, essa lo riveste e lo protegge dalla perdita di liquidi, dall’attacco di predatori, parassiti o malattie, e dagli sbalzi di umore del clima. Nonostante queste sue funzioni, la corteccia è comunque una struttura in costante evoluzione, che muta e si adatta nel tempo.

Dettagli della corteccia di alberi diversi nelle faggete vetuste del PNALM, testimonianza della varietà di disegno, struttura e comunità di specie epifite

In giovane età il faggio ha una corteccia che presenta un ritidoma, ovvero lo strato più esterno, molto delicato e sottile; questo, con il passare del tempo, accumula minerali e aumenta di spessore, permettendo una maggiore resistenza e durezza. Gli eventi meteorici e i microrganismi generalmente causano la disgregazione della sua superficie e ne mantengono l’aspetto liscio e il colore grigio-chiaro, spesso segnato da striature orizzontali più scure e piccole macchie tondeggianti biancastre dovute a licheni crostosi.

La corteccia di un faggio della varietà "quercoides

L’aspetto peculiare della corteccia di un faggio della varietà “quercoides”, tipicamente caratterizzata da placche e fessure evidenti, nella faggeta vetusta della Val Cervara

Ciononostante, la corteccia degli alberi ultracentenari delle faggete vetuste del PNALM raramente mantiene questo aspetto così omogeneo e, se vogliamo, tipico del faggio: con il trascorrere dei secoli, infatti, essa ha assunto un “look” molto più complesso e tormentato, pieno di nodi, fessurazioni e screpolature, concentrate specialmente alla base del tronco. In queste foreste è molto difficile trovare due alberi dal disegno della corteccia simile tra loro. Nei casi più eclatanti si parla anche di una rara varietà del faggio nota come quercoides, che presenta una superficie del tronco particolarmente fessurata e ricoperta da placche e creste, simile appunto a quella di una quercia.

Una minuscola femmina di fiorrancino

Una minuscola femmina di fiorrancino (Regulus ignicapillus), tra i più piccoli uccelli d’Europa, saltella a caccia di piccoli invertebrati tra i muschi e i licheni cresciuti sulla corteccia di un faggio secolare nella faggeta del Coppo del Principe

Queste irregolarità superficiali permettono, a loro volta, la colonizzazione di muschi, licheni e funghi e l’accesso al legno di una miriade di altri organismi. Si vengono così a creare nicchie e rilievi, piccole fessure su cui aderiscono i talli dei licheni o in cui riescono a penetrare le ife fungine.

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L’inconfondibile tallo foglioso, verde brillante del lichene Lobaria pulmonaria. Questa specie, che rifugge inquinamento e manomissioni ambientali, è indicatrice della qualità dell’aria e dello stato di salute delle foreste.

Il verde-smeraldo dei pulvini di muschio e i tanti colori delle numerose specie di licheni sono forse l’aspetto più caratteristico delle faggete vetuste appenniniche. Proprio questa varietà di specie epifite, che rifuggono alte temperature, aridità ed inquinamento conferma l’importanza di queste foreste. Qui si possono rinvenire specie esclusive del faggio o specie che vivono anche in altri tipi di ambienti, ma dalle caratteristiche simili. Infatti sembra sia il livello di acidità della corteccia (pH), più che la specie di albero ospite, il vero fattore discriminante nella colonizzazione di una specie di lichene invece che un’altra. Tra le centinaia di specie rinvenute nel PNALM, la Lobaria pulmonaria merita una menzione particolare. Si tratta di un lichene foglioso dall’aspetto evidente, con un tallo che somiglia a delle foglie, che, in condizioni di umidità, assume un bel colore verde-brillante. Questa specie prende il suo nome dalla credenza che ne associava la forma vagamente simile a quella dei polmoni a presunte capacità curative delle malattie polmonari. La cosa però più importante è che la Lobaria rappresenta un vero bioindicatore: la sua semplice presenza infatti testimonia la qualità dell’aria e lo stato di salute delle nostre faggete.

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I corpi fruttiferi dei funghi della specie Fomes fomentarius emergono sulla corteccia di un faggio morto nella foresta del Coppo del Principe

Come abbiamo visto, con il tempo la corteccia del faggio cede lentamente all’avanzata dei funghi. Decine di specie che cercano di penetrare all’interno del tronco con il proprio micelio per nutrirsi di legno e sostanze nutritive. Tra questi funghi parassiti ce n’è uno molto evidente e diffuso nelle faggete vetuste appenniniche: il Fomes fomentarius ha un corpo fruttifero dalla forma che ricorda molto uno zoccolo di cavallo. Talvolta decine di questi “cappelli” sembrano decorare gli alberi più grandi della foresta. Questo fungo è un serio patogeno del faggio e ne causa la marcescenza del legno. Con il tempo gli alberi infestati da Fomes muoiono e crollano a terra, ma il fungo continua a vivere per lungo tempo, trasformandosi da organismo parassita a decompositore.

A sinistra: una falena (fam. Geometridae) perfettamente mimetizzata tra le chiazze di licheni cresciuti sulla corteccia.

 

A destra: il gasteropode Clausilia rugosa tra muschi e licheni cresciuti sulla corteccia di un faggio secolare

Anche organismi animali, grandi e piccoli sfruttano la complessità della corteccia per la ricerca del cibo o per trovarvi rifugio. Molluschi gasteropodi, ragni, lepidotteri, coleotteri e ditteri sono tra le categorie di invertebrati più frequenti in questo microhabitat. Alcune specie di opilioni e di falene, inoltre, rappresentano un esempio stupefacente di mimetismo criptico: esse imitano perfettamente nei propri colori e forme il disegno variegato di corteccia e licheni dei tronchi di faggio per sfuggire alla vista dei predatori.

Un opilione perfettamente mimetizzato sulla corteccia di un faggio, attende immobile il passaggio di una possibile preda, ma viene sorpreso invece da un aggressivo conspecifico.

Nel caso di piante morte o morenti, gli strati esterni della corteccia possono lentamente distaccarsi dal legno del tronco. Ciò talvolta può venire causato anche da invertebrati, come i coleotteri scolitidi, ad esempio, che depongono le proprie uova, in minuscoli fori sulla corteccia e le cui larve si nutrono poi del legno scavando lunghe e spettacolari gallerie. Di queste stesse larve fa spesso incetta il raro Picchio dalmatino, che le ricerca facendo saltare via le scaglie di corteccia con il becco.

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Il distacco della corteccia ha messo in evidenza le tracce lasciate da larve di coleotteri xilofagi (fam. Scolitidi) sul legno di un faggio morto

Una volta staccatesi, queste scaglie più o meno grandi cadono sul terreno o rimangono ancora attaccate al tronco dell’albero. Lo spazio sottostante che viene a crearsi è letteralmente una “nicchia” ecologica, ovvero un ulteriore microhabitat d’elezione per alcune specie forestali davvero interessanti.

La sequenza mostra una coppia di rampichini alpestri porta l’imbeccata ai propri piccoli nel nido, costruito sotto una scheggia di corteccia.

Tra queste il minuto Rampichino alpestre (Certia familiaris), che in Appennino vive esclusivamente nelle foreste mature ed è un vero specialista della corteccia degli alberi. Già la colorazione del suo piumaggio ne ricorda da vicino il disegno: un altro caso eclatante di mimetismo. Grazie ai lunghi artigli che utilizza come dei ramponi, questo piccolo passeriforme è in grado di scalare abilmente anche i tronchi degli alberi più alti. Con il suo becco ricurvo sonda minuziosamente ogni piccola ruga, ogni massa di muschi o licheni, alla ricerca dei piccoli invertebrati di cui si nutre. Quando poi arriva in cima ad un albero, con un breve volo si posa alla base di un’altra pianta e ricomincia la sua arrampicata. Persino il nido di questo uccello è sorprendente: il rampichino, infatti, sceglie di costruirlo proprio sotto una di queste scaglie di corteccia sollevate. Un nido dall’aspetto forse fragile, ma molto ben nascosto!

Un’altra specie indicatrice di naturalità e vanto delle faggete mature appenniniche è il Barbastello (Barbastella barbastellus), uno dei pipistrelli più rari d’Europa. Un tempo si pensava che questo piccolo chirottero trovasse rifugio solo all’interno di grotte o edifici umani, ma, grazie alla telemetria e al monitoraggio degli spostamenti di alcuni individui, è stato possibile localizzarne i rifugi su grandi alberi morti ancora in piedi. Le piccole colonie della popolazione di Barbastello del PNALM, infatti, si rifugiano sotto i lembi di corteccia di faggi di notevoli dimensioni nei tratti di foresta meglio preservata. Qui i pipistrelli trascorrono le ore diurne al sicuro dai predatori e beneficiano dell’esposizione al sole del tronco stesso prima di uscire al crepuscolo per intraprendere la caccia. I barbastelli del Parco hanno bisogno di molti alberi con queste caratteristiche: essi cambiano i propri rifugi con grande frequenza, dormendo a volte su un albero diverso ogni giorno.

A sinistra: una delle numerose incisioni “storiche”, datata 1944, lasciate da pastori, taglialegna e viandanti nelle faggete vetuste del PNALM

A destra: incisione umana (data 1927) sulla corteccia di un faggio della foresta di Coppo del Principe.

La corteccia liscia e sottile di un giovane faggio, come appena visto, è molto delicata e assai suscettibile alle lesioni e ai traumi. É facile intuire l’importanza dell’integrità di questo organo di difesa della pianta contro patogeni e parassiti. Ciononostante, l’antica e dannosa pratica di incidere gli alberi, spesso con il proprio nome o con le iniziali di due innamorati, prosegue inalterata nel tempo. Non c’è angolo di queste montagne dove l’uomo non abbia lasciato i segni del proprio passaggio. E anche nelle faggete più difficili da raggiungere, come quelle della Val Cervara e del Coppo del Principe, ad esempio, si rinvengono epigrafi, date, simboli, codici incisi sulle cortecce di molti alberi da pastori, boscaioli e viandanti. É pur vero che molto spesso si tratta di segni molto vecchi, risalenti agli inizi del secolo scorso, in gran parte erosi dal tempo e ricoperti da calli del tronco, funghi o licheni. Un esempio molto noto è quello dell’incisione situata nei dintorni di Pescasseroli e localmente conosciuta come “la scritta del Re Vittorio Emanuele”. Essa in realtà dovrebbe celebrare una battuta di caccia organizzata in onore del Principe Amedeo d’Aosta avvenuta agli inizi del Novecento.

 

Insomma, nonostante queste incisioni rappresentino gli effetti indelebili di un’azione assai discutibile, è innegabile il loro interesse storico e antropologico; esse testimoniano un passato dove foreste, valli e praterie montane erano molto più frequentate di oggi e sottolineano ulteriormente l’eccezionalità di queste faggete, miracolosamente sopravvissute sino al presente.

Carmelo Gentile, forestale del Servizio Scientifico del PNALM racconta la storia dell’incisione nota come “la scritta del Re” nella faggeta del Coppo del Principe.

Ben diverso, seppure forse non per l’effetto che comporta alla salute della pianta, è il discorso relativo al consumo della corteccia e alle marcature su di essa da parte dei grandi mammiferi. Oltre al bestiame domestico, anche cervi e caprioli si nutrono volentieri della corteccia dei giovani faggi, strappandone lunghi lembi con gli incisivi. Questi ultimi, inoltre, lasciano segni profondi sugli alberi con i propri palchi, quando li sfregano per rimuovere lo strato di pelle (“velluto”) che li ricopre o per marcare il territorio con le secrezioni delle ghiandole poste vicino agli occhi.

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Profondi segni di marcatura lasciati dagli unghioni dell’Orso bruno marsicano (Ursus arctos marsicanus) sulla corteccia di un faggio nella foresta di Cacciagrande.

Oltre a quelli degli ungulati, sui faggi si possono rinvenire con un po’ di fortuna anche altri segni di presenza, però molto più rari ed emozionanti da individuare: si tratta di quelli lasciati dagli unghioni dell’orso bruno marsicano. Il raro plantigrado, infatti, marca la sua presenza sui tronchi degli alberi con graffi e morsi o, più spesso, semplicemente con il proprio odore, che lascia sfregandosi intensamente. Gli alberi marcati dagli orsi (noti tecnicamente come “rub-trees”) però non vengono scelti casualmente: essi spesso sono dei veri e propri nodi di comunicazione tra i diversi individui e sono localizzati lungo percorsi preferenziali e ben delineati. Questi alberi possono essere utilizzati dagli animali anno dopo anno, anche per molto tempo. La loro individuazione è utilissima anche per il monitoraggio di questa specie così minacciata. I peli di orso che rimangono impigliati sulla corteccia, infatti, opportunamente raccolti e conservati dai ricercatori possono essere analizzati per estrarne il DNA e, quindi, identificare geneticamente l’individuo che li ha lasciati (v. Ricerca e conservazione nelle faggete vetuste).

 

Ciò dimostra che la foresta, che a noi può sembrare un ambiente monotono e privo di punti di riferimento, con alberi e rocce tutti uguali, non lo è affatto. Infatti, il mondo sensoriale di molti animali è più ricco e sviluppato del nostro.

Una femmina di orso marsicano viene ripresa in compagnia del piccolo da una fototrappola di controllo mentre si gratta su un rub-tree nel cuore del PNALM. 

© Bruno D’Amicis / Umberto Esposito 2013-2016 – www.silva.pictures

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